venerdì 13 settembre 2013

La Rivolta del Sette e Mezzo



La rivolta del sette e mezzo fu la sollevazione popolare avvenuta a Palermo dal 16 al 22 settembre 1866. Chiamata del "sette e mezzo" perché durò sette giorni e mezzo.

Le cause

 Tra le cause: la crescente miseria della popolazione, il colera e le sue 53 000 vittime, le terre ecclesiastiche destinate alla redistribuzione e assegnate ai contadini, vennero in realtà vendute all’asta e di conseguenza furono acquistate da grossi proprietari terrieri,l'integralismo dei funzionari statali piemontesi, che consideravano "quasi barbari i palermitani",le pesanti misure poliziesche e vessatori introdotte,il sacrificio produttivo” che il governo piemontese attuò nel Sud Italia, per favorire l’economia settentrionale; la povertà dei redditi agricoli,e per capire ciò, basta andare ad equipararli con quelli della Lombardia: nel 1866 in Sicilia, un ettaro di superficie produttiva rendeva mediamente 74 lire, a fronte di quelli lombardi che invece rendevano 161 lire e le spinte autonomistiche che prendevano sempre più il sopravvento.

La rivolta



 Migliaia di persone insorsero, anche armati, provenienti anche dai paesi vicini. Quasi 4.000 rivoltosi assalirono prefettura e questura, uccidendo l'ispettore generale del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. La città restò in mano agli insorti e la rivolta si estese nei giorni seguenti anche nei paesi limitrofi, come Monreale e Misilmeri: fu stimato che in totale gli insorti armati fossero circa 35.000 in provincia di Palermo. Negli scontri di quei giorni persero la vita ventuno carabinieri e dieci guardie di pubblica sicurezza. Palermo per sette giorni rimase così in mano ai rivoltosi. Il governo italiano decise di proclamare lo stato d'assedio e ad adottare contro il popolo palermitano una dura repressione, con rappresaglie, persecuzioni, torture e violenze. Ci furono duri scontri, i ribelli riuscirono a tener testa all’esercito regolare. Il 21, le truppe piemontesi cominciarono a riprendere il controllo delle situazione.

Reazione governativa

La rivoltà durò 7 giorni e mezzo; il 22 Settembre il generale Cadorna riusciva a penetrare in città. Fucilazioni sommarie avvennero dopo la repressione della sollevazione. Sicuramente dietro alla rivolta, un’abile mano dirigente manovrava il tutto (comitati borbonici e repubblicani azionisti) anche perché moti contemporanei a quello di Palermo scoppiarono a Monreale, Borgetto, Torretta, Misilmeri, Villabate, Mezzojiuso, Marineo, Corleone, Piane dei Greci, province di Trapani e Catania. Tuttavia, non bisogna sottovalutare il coinvolgimento spontaneo popolare, prova questa, di un diffuso malcontento all’interno della popolazione.

lunedì 9 settembre 2013

La Questine Meridionale

Con l'espressione “Questione Meridionale” si definisce il divario, nelle attività sociali ed economiche,tra le regioni settentrionali e quelle meridionali dell’Italia; tale divario ha dato luogo ad un ampio dibattito relativo alle cause del mancato sviluppo economico, sociale, culturale del Sud dopo l'Unità d'Italia.
Analizziamo di seguito, e più nel dettaglio, in cosa consiste il grande divario tra il Nord e il Sud dell'Italia e individuiamo le cause che lo hanno determinato, ricercando le "precise responsabilità" sullo stato di abbandono e di miseria del Sud e, in particolare, della Sicilia. Da decenni, in Sicilia, l’immobilismo sociale aveva sostenuto l’esistenza di una classe parassitaria, quella dei baroni, che affittavano le loro terre senza farvi alcun investimento. In più, i Borboni dopo le tendenze riformatrici dei primi anni, promosse da Ferdinando, avevano rinunciato a modernizzare il Paese.

Da decenni, in Sicilia, l’immobilismo sociale aveva sostenuto l’esistenza di una classe parassitaria, quella dei baroni, che affittavano le loro terre senza farvi alcun investimento. In più, i Borbone, dopo le tendenze riformatrici dei primi anni, promosse da Ferdinando, avevano rinunciato a modernizzare il Paese.A contribuire allo spirito unitario siciliano vi era non solo l’odio dei siciliani stessi verso i Borbone, i quali avevano reso il loro territorio una provincia di Napoli, ma anche l’anelito di poter riacquistare la propria autonomia. Quanto alla cultura politica siciliana, essa si era plasmata sui movimenti italiani più influenti, quello mazziniano e quello liberale. Fu in questo contesto storico che gli eventi siciliani, come, ad esempio, la Rivolta della Gancia guidata da Francesco Riso, si fusero ai tentativi di esponenti come Mazzini e Cavour di unificare tutti i territori abitati da italiani, costituendo, pertanto, gli episodi cardine del Risorgimento italiano.

Il 5 maggio 1860 Giuseppe Garibaldi, con il supporto di Francesco Crispi, salpò da Quarto e sbarcò a Marsala l’11 maggio. Arrivato in Sicilia Garibaldi si dichiarò dittatore in nome di Vittorio Emanuele II di Savoia. Con l’aiuto dei patriotti siciliani, detti “picciotti”, Garibaldi riuscì a strappare all’esercito borbonico le città di Calatafimi, Alcamo ed infine Palermo. Dopo aver strappato l’ultima città siciliana, Messina, ai Borbone, Garibaldi risalì la penisola, attraversando quasi tutte le regioni meridionali e conquistandole. La sua azione si risolse con l’incontro di Teano del 26 ottobre 1860, durante il quale cedette le terre occupate a Vittorio Emanuele II e con il quale finisce simbolicamente la spedizione dei Mille. Con il plebiscito del 21 ottobre 1860, quasi il 75% dei siciliani votò per l’annessione al Piemonte, speranzoso che il nuovo governo avrebbe cambiato radicalmente le condizioni di vita. Ma come disse Massimo D’Azeglio all’indomani dell’Unità: "Fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani". La nuova Italia, infatti, era costituita da popolazioni poco eterogenee sotto il profilo economico, sociale e culturale. I governi che si susseguirono scartarono l'ipotesi federalista o regionalista, optarono per un forte accentramento, con ripartizioni amministrative rette da un prefetto, in quella che venne definita “Piemontizzazione”. I prefetti che venivano assegnati ai diversi territori erano per lo più piemontesi e questo si risolveva in incomprensioni con la popolazione. Furono trascurate dallo stesso Cavour e dal governo centrale l’autonomia e le leggi speciali che la Sicilia possedeva sotto i Borbone e che ora aspirava a mantenere. Già con Garibaldi erano nati in Sicilia malcontenti diffusi circa la repressione di Bronte; ancora più accentuati divennero all’indomani dell’Unità, con l’affermazione del fenomeno del “Brigantaggio”. Tale forma di banditismo si esprime in azioni di rivolta da parte del proletariato rurale e di ex militari borbonici, spinti da diverse problematiche sociali ed economiche. Giustino Fortunato, personalità storica e politica rilevante e uno dei rappresentati più importanti del Meridionalismo sosteneva che il brigantaggio fosse espressione della miseria in cui versava il sud e che per eliminarlo era necessario evitare l’isolamento del meridione e attuare un’azione politica volta al suo sviluppo con la costruzione di una rete ferrovia, stradale e infrastrutturale, con la promozione dell’attività industriale. Con l’Unità, non furono posti sotto un unico Stato popoli eterogenei per tradizioni, cultura e mentalità, ma vennero “nazionalizzate” le diverse condizioni economiche dei singoli territori. Di fronte ad un Nord dal ceto borghese pieno di iniziative e volto agli investimenti capitalistici e ad un Sud in cui emergevano un sistema agricolo primitivo e semi-feudale, la politica fiscale adottata dal nuovo governo non fu omogenea, in quanto il primo venne avvantaggiato e il secondo ulteriormente impoverito. Essa “faceva sì che l’Italia settentrionale, la quale possedeva il 48% della ricchezza del paese, pagava meno del 40% del carico tributario, mentre l’Italia meridionale, con il 27% della ricchezza, pagava il 32%” Pertanto,pur considerando quei tentativi di superamento di tale situazione, riteniamo che poco e nulla è stato fatto: se, da un lato, l'avvenuto processo unitario non ha fatto altro che aggravare le condizioni preesistenti di regressione e arretramento socio-economici, dall'altro, bisogna anche riflettere sulla serie di scogli insuperabili ed endemici del Sud e, nel nostro caso, della Sicilia, come la presenza di una mentalità clientelare, legata agli interessi della borghesia terriera e alla classe baronale, l'omertà,in una spirale intrecciata di cause e conseguenze, confluenti le une nelle altre, in cui,risulta, a volte, poco o per niente possibile individuare il confine tra le prime e le seconde. Da quanto detto, abbiamo potuto evincere come l'analisi delle condizioni economiche del Sud non era soltanto indispensabile per comprendere le differenze rispetto al Nord e la politica inerte del nuovo regno, incapace di superare tale impasse, ma era soprattutto necessaria per far capire agli italiani, e alle personalità influenti, che la “Questione Meridionale” era innanzitutto una questione umanitaria e sociale. Questo lo hanno intuito intellettuali e uomini di cultura come, ad esempio, Luigi Pirandello e Giovanni Verga