giovedì 31 gennaio 2013

Sicilia dove il Medioevo ha lasciato dei segni indelebili e suggestivi

Castello di falconara
Altra preziosa testimonianza del passato, è il castello di Falconara, costruito più o meno nello stesso periodo del castello di Mussumeli, dalla famiglia di Ugone di Santampau; nel ‘500 passò ai Branciforti, poi ad un conte tedesco e, infine, alla famiglia Bordonaro, che lo abita tuttora. La parte più antica della costruzione è la torre, che prende il nome dall’allevamento di falchi per la caccia. Vi si trovava, infatti, una guarnigione ben armata, visto che la Falconara era la più imponente delle torri di avvistamento della costa meridionale siciliana. Proprio per controllare l’orizzonte e l’eventuale arrivo di stranieri, sorse anche il castello di Butera, in cima ad uno sperone roccioso che, ben presto, divenne un premio ambito per tutti coloro che si volevano impossessare della Sicilia, dagli Arabi, ai Normanni, fino ai Saraceni. Oggi rimangono soltanto una torre quadrangolare e pochi tratti di mura merlate.
Interno Castello di Falconara
Proseguendo si giunge, infine, ai ruderi del Castellazzo di Grassuliato, al centro di una leggenda. Si dice, infatti, che fu distrutto dal signore di Mazzarino al termine di una disputa tra due castellani, seriamente intenzionati a fondare un paese nei pressi del maniero. In pratica, dopo un duro combattimento, il vincitore avrebbe potuto acquisire il diritto di edificare.In ogni caso tutta la zona resta avvolta da un fascino innaturale, a partire dal nome di Grassuliato che deriverebbe dal latino “Arx Saliatum”, perché in epoche leggendarie qui potrebbero aver vissuto i sacerdoti di Marte, detti “saliati”, a causa del particolare saltellare ritmico che eseguivano in onore del dio.
Per via dei suoi castelli, ma anche per l’aria quasi fuori dal tempo che si continua a respirare, la provincia di Caltanissetta, con i suoi mitici castelli, è diventata una importante meta di turismo che richiama in Sicilia, annualmente, moltissimi visitatori.

mercoledì 30 gennaio 2013

Sicilia dove il Medioevo ha lasciato dei segni indelebili e suggestivi

Castello di Mussumeli
Castello di Mussumeli
La Sicilia è un’isola dai mille volti, dove le testimonianze ancora presenti di antiche dominazioni, si fondono perfettamente con paesaggi sempre diversi e mai monotoni. Immersa nei suoi colori che vanno dal verde del carrubo, al bianco delle saline, al rosso purpureo della lava, è resa ancora più misteriosa dagli antichi castelli medievali che spiccano superbi, soprattutto nella provincia di Caltanissetta. Fra tratti di terra arsa e fertile, alternata da colline e pianure, mentre a perdita d’occhio si notano distese di viti e olivi e graziose case dall’aspetto rustico, si arriva, quindi, alla cosiddetta Sicilia del feudo che corrisponde, più o meno, alle province interne di Enna, Agrigento e Caltanissetta. Proprio in questa zona, infatti, dalle vette delle rocce spuntano vecchi manieri ancora discretamente conservati, che comunicano tanta fierezza da lasciare udire al visitatore più curioso, gli echi di eroiche battaglie che in questi campi assolati furono consumate. Del resto in tali luoghi, l’epoca feudale si spinse ben oltre le soglie dell’Evo moderno e lo si può comprendere osservando le torri cotte dal sole o i brandelli di muro, dove i signori siciliani dell’epoca potevano comunicare al mondo la propria potenza e ricchezza. L’unico “gioiello” intatto di questi secoli ancora oggi definiti “bui”, è rappresentato dal castello di Mussomeli, pittoresco fino all’inverosimile e davvero molto vicino al centro abitato. Si erge in cima ad una rupe scoscesa di quasi 800 metri di altezza e comunica il carattere fiero del suo costruttore, Manfredi III di Chiaramonte, discendente da una delle famiglie nobili più in vista dell’800, in grado di creare un vero e proprio stile architettonico, ancora oggi denominato “gotico – chiaramontano”. Il suo aspetto resta ancora fedele al periodo in cui venne costruito, anche perché negli ultimi secoli, dopo essere diventato un carcere, venne definitivamente abbandonato.

Le malattie più diffuse del xvlI sec.

Certamente Don Giorgio dovette confrontarsi con i problemi igienici e con le malattie più diffuse della sua epoca: molto diffusa nel 1600 era la rogna (o scabbia), e il male francese, ossia la sifilide, (chiamata in Francia mal di Napoli), che deturpava il viso e altre parti del corpo con caratteristici "ampulli grossi… comu castagni et nuchilli". Un'altra malattia a quel tempo endemica era la lebbra, causata delle tremende condizioni igieniche, essa era considerata terrificante per i risvolti sociali che comportava: per i lebbrosi era prevista l'esclusione dal consorzio civile, venivano segregati a vita in luoghi appartati (gli stessi in cui nasceranno i primi ospedali psichiatrici) e perdevano ogni diritto, ma erano mantenuti a spese della comunità; tanto che alcuni indigenti, per sopravvivere, si facevano passare per lebbrosi. Fino alla metà del XVII secolo,Palermo dopo Napoli era la seconda città più popolata d'Europa:la prima arrivò a contare un massimo di centocinquantamila abitanti,la seconda quattrocentomila Palermo era capitale politica, Messina principale emporio commerciale e (dal 1548) sede universitaria, e Catania era sede (dal 1438) dell'Università degli studi più antica e importante. Periodicamente la popolazione veniva decimata da carestie ed epidemie. La peste infuriò a Palermo nel 1575 e poi nel 1624:il protomedico del regno, Gian Filippo Ingrassia, in tale occasione mise in atto metodi razionali di profilassi ed igiene. Nel corso delle pestilenze, i medici giravano vestiti in modo molto originale con una maschera a forma di becco d'uccello sul naso, che conteneva una spugna con dei profumi, perché si credeva fossero gli odori a causare la malattia: non si era ancora sviluppato il concetto di contagio da organismi viventi,non si capiva quindi come si trasmettessero,si riteneva che gli odori e gli unguenti portassero il contagio, ma non si comprendeva per quale ragione. Non c'era nessun concetto di igiene, tanto che persino le lenzuola dei letti dei malati venivano riciclate senza pulirle con immaginabili conseguenze soprattutto in zone molto popolate.Le epidemie erano vissute dal popolo come castighi divini. La Sicilia del 1600, in cui operò don Giorgio Gulioso, era l'avamposto europeo e cristiano contro l'Islam, al centro del Mediterraneo, al confine di due mondi ostili.

martedì 29 gennaio 2013

Gli studi di medicina e gli ospedali del xvi sec.

Gian Filippo Ingrassia
Per quanto riguarda invece lo stato degli studi di medicina a Palermo, all'epoca di don Giorgio Gulioso, occorre osservare come già in epoca musulmana, normanna e sveva, avessero esercitato a Palermo valenti medici, che svolgevano funzioni di insegnamento nei confronti di allievi che venivano poi esaminati, per l'abilitazione alla professione da delegati regi ed, in seguito, dai maestri della Scuola Medica Salernitana. Comunque il primo vero maestro di medicina, che ebbe una statura paragonabile a quella di un docente universitario, fu Giovanni Filippo Ingrassia da Regalbuto (1510-1580), chiamato a Palermo per volontà del viceré Giovanni de Vega, nel 1553. Venne costituita, nello Spedale Grande l'Accademia di Anatomia, mentre successivamente nel 1645 fu fondata l'Accademia dei Jatrofisici e di Medicina chiamata anche Archiliceo di Medicina dove si insegnavano Anatomia e Chirurgia, anche con dissezione su cadavere, e dove i più importanti medici della città tenevano conferenze: l'autore della prescrizione di cui ci stiamo occupando, con tutta probabilità effettuò gli studi proprio presso questa Accademia. Leggiamo nella nostra prescrizione, che il dottore in medicina don Giorgio Gulioso era attivo presso l'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo. Gli Ospedali rivestivano in quel tempo una funzione di tipo assistenziale più che diagnostico-terapeutica: erano ricoveri per persone non abbienti, più che luoghi di cura. Le condizioni igieniche erano alquanto sommarie ma non mancavano mai le sacre icone in quanto gli ospedali erano considerati luoghi dove affidarsi più che alle cure, alla presenza taumaturgica del sacro. La fondazione dell'Ospedale Grande e Nuovo viene fatta risalire 1429.A Palermo esistevano già ventidue ospedali,insufficienti per tutti gli ammalati e infermi.Sebbene, fin dalla dominazione araba, Palermo avesse sempre avuto un minimo di organizzazione sanitaria, nella gloriosa città si vedevano molti infelici morire per le strade. In breve tempo il Senato di Palermo procedette all'accorpamento dei piccoli ospedali esistenti,individuando per il nuovo nosocomio il trecentesco edificio, costruito nel 1330, dal conte Matteo Sclafani per scommessa col cognato Manfredi Chiaramonte, proprietario dello Steri di Piazza Marina. La sede di Palazzo Sclafani, stava opportunamente tra il Palazzo Reale e la Cattedrale, equidistante dal potere temporale e da quello spirituale.

L'uso del vino a scopo terapeutico nell'antichità

Bacco e Arianna
Il medico accorto, quando desidera salvaguardare la salute di qualcuno, deve badare ad istruire nel bere secondo la qualità naturale dell'uomo e del vino. Al medico d'altra parte è necessario che nel vino e nelle altre cose tenga sempre presente il temperamento e la sovrabbondanza di umore di ciascun uomo. Il vino, bevuto moderatamente conforta ed aumenta il calore naturale, espelle la bile gialla col sudore e l'urina, riscaldando ed inumidendo modera la bile nera, ammorbidisce le membra irrigidite, indurite e secche per la fatica e l'eccessiva stanchezza, toglie la spossatezza e ridona le forze ai malati, ingrassa i corpi, rinforza l'energia e l'appetito, elimina la dilatazione e la flatulenza. Ma, qualora si beva trascurando un ragionevole limite oppure fino all'ebrietà, genera turbamento della mente, stoltezza, apoplessia, epilessia, paralisi, tremore, spasmo e simili. A quel tempo era presente soprattutto una antica e radicata diffidenza nei confronti di chi beve acqua: questa idea ricorrente che attraversa tutte le società, dall'alto medioevo fino all'inizio del secolo XX sia per la pulizia che per l'alimentazione, non fu dovuto solo alla difficoltà nel procacciarsi questo prezioso elemento, ma soprattutto al forte convincimento culturale secondo cui tutti coloro che bevono acqua si ammalano. Tale diffidenza, testimoniata fin da una Epistola in cui san Paolo ammonisce Timoteo a smettere di bere acqua e a ricorrere invece al vino, "perché ti curerà lo stomaco e i mali di cui soffri", è ripresa dalla saggezza popolare che, mentre esalta il vino come sangue dell'uomo e antidoto alle più svariate malattie, attribuisce all'acqua il potere di accorciare la vita e di provocare tristezza e malinconia. Il vino elimina i cattivi umori negli adulti e i vermi nei bambini mentre proverbi e detti suggeriscono che dal buon vino ne segue il buon sangue, il vino è il latte dei vecchi, il vino è il sangue dell'uomo, il vino allunga la vita, l'acqua accorcia gli anni, l'acqua fa male, il vino fa cantare. La classificazione organolettica del vino, nel 1600 si faceva sulla base del colore, del gusto e del piccante (frizzante). le preferenze andavano ai vini rosati, dolci e frizzanti; il moscato era in questo periodo un vino secco. I vini bianchi dolci venivano prodotti con uve non aromatiche. Le prime testimonianze sul vino nella cultura medica risalgono al V IV secolo a.C., al "corpus ippocraticum" , una collezione di circa settanta opere che trattano vari temi, tra cui spicca la medicina,viene consigliato per combattere la febbre, come diuretico, come antisettico e aiuto nelle convalescenze. E' certo, inoltre, che per oltre duemila anni, il vino sia stato l'unico antisettico utilizzato sia per disinfettare le ferite, che per rendere potabile l'acqua. Durante il 1600 il vino non era considerato solamente una gradevole bevanda ma veniva anche utilizzato per produrre dei rimedi per varie malattie. Per curare la melanconia, il tremor di cuore, la rogna e la lebbra, togliere i cattivi pensieri e i vermi dall'intestino si usava il vino alla borragine ed alla melissa; oppure per prevenire la peste, le piaghe, per curare la tisi e la febbre quartana, il morbo caduco si prescriveva il Vino di rosmarino. Nei secoli successivi, ancora fino alla metà dell'800 famosi clinici tedeschi consigliavano l'uso di piccole quantità di buon vino come stimolante cardiaco. Oggi il vino, pur essendo ormai scomparso dal repertorio farmaceutico, resta un inseparabile accompagnamento delle buone pietanze e nessun medico proibisce il suo uso misurato.

lunedì 28 gennaio 2013

Il dottor Gulioso e la sua prescrizione


Certifico io infrascritto a chi spetta qual(…)re // il vino per quelli Infermi alli quali si concede si // deue temperare in maniera che le due parti // siano d`acqua et una sola di vino, essendo // q(ue)sto di bona qualità; essendo però di qualità // gagliarda et esquisita // deue essere di sorte che rice // (…)te// le tre et alla gagliardissima le quattro quantità siano d`acqua et una di vino separatamente, n(on) po- // tendosi la quantità dell`acqua determinata(men)te descrivere, se non dalla determinata q(ua)lità del // vino che presentialmente s`hauerà da ricono//scere, essendo etiam nella bontà di sua qualità // ogni vino variabile sono pe(rciò) esclusi p(er) l`ammalati, // li vini spunti, acidi, acerbi, muscidi seu // che han sapore di muffa; li Calabresi, moscatelli o di legnaggi, douendosi questi escludere per ordinario // no(n) però che no(n) si potessero alcuna delle volte concedere, et altera con la speciale Licenza del Medico assistente; e per esse(re) così il mio parere ho fatta la pr(ese)nte S(cri)tta di mia propria mano: hoggi in // Pal(ermo) Lì 20 8bre 1699

 D.D. Georgio Gulioso Medico Fisico P. rio dell Hosp(eda)le Grande e Nouo di Pal(erm)o

L`archivio da cui è stata tratta questa prescrizione è quello della famiglia Gulioso che, provenendo da Amalfi nel sec. XIII, si stabilì a Palermo e successivamente fiorì nel territorio nebrode-madonita, tra Pettineo e Tusa, fino ad estinguersi negli ultimi anni del ventesimo secolo. Da mercanti e cambiatori che erano, i Gulioso, divennero proprietari terrieri, notai, medici, abati o badesse, doctores in quatroque, etc., imparentandosi con altre antiche famiglie siciliane e collocandosi tra quella piccola aristocrazia terriera colta e produttiva presso cui avrebbe allignato, nel sec. XIX, l`ideologia liberale.

 Fin qui le poche notizie su questo medico siciliano del 1600, ma quale era il clima culturale in cui si era formato e operava? L`epoca era tra le più feconde per lo sviluppo delle scienze mediche, rimaste fino a quel momento legate all`ipse dixit ippocratico/galenico: erano quelli gli anni in cui iniziava l`avvento del metodo sperimentale in antagonismo alla scolastica che privilegiava il principio aristotelico.Tra la fine del `500 e il `600 avvenne la rivoluzione scientifica operata in gran parte da Galileo Galilei (1564-1642), primo a introdurre il calcolo matematico negli esperimenti scientifici. All`inizio non vi furono grandi mutamenti né in patologia né in terapia, anche perché era difficile mettere ordine le innumerevoli dottrine mediche e scuole di pensiero dell`epoca: troppo distanti erano le posizioni dei seguaci della teoria umorale, di chi si affidava alle capacità autoguaritrici dell`organismo umano, degli interventisti, o di chi prediligeva i farmaci d`origine animale o vegetale.

 Di sicuro il medico fisico don Giorgio Gulioso si formò nel solco della dottrina ippocratico/galenica, ma non sappiamo se e fino a qual punto, sia stato influenzato dalla nuova scienza che si andava facendo strada o se accostò mai l`occhio a un microscopio; probabilmente, per i suoi pazienti più facoltosi, prescrisse ancora la Theriaca: un antico polifarmaco compreso tra mito e realtà quotidiana, tra scienza e magia - che conteneva, oltre molti altri semplici, anche carne di vipera, oppio e vino falerno vecchio - rimedio sovrano per un`infinità di malattie, che venne utilizzato ininterrottamente per 18 secoli, fino all`inizio del sec. XIX, per risolvere ogni tipo di male, ridare vigore al corpo indebolito, nonché per preservare dalla lebbra e dalla peste.

venerdì 25 gennaio 2013

Gli Inglesi e la cultura del vino Marsala

Marsala vista da Mozia

Le origini del prestigioso vino Marsala, noto in tutto il mondo, risalgono alla seconda metà del XVIII secolo. In quel periodo numerosi mercanti inglesi importavano dalla Sicilia vino, olio, ceneri di soda, sale, miele, tonno, nocciole ecc. A causa di una tempesta, approdò casualmente lungo le coste della città di Marsala John Woodhouse, un mercante inglese. Egli apprezzò subito le caratteristiche del vino locale poiché erano molto simili a quelle dei vini iberici. Risalirebbe al 1773 la prima spedizione in Inghilterra di settanta botti di vino come Madera e solo dopo aver constatato il gran successo riscosso sulle tavole e nelle taverne inglesi, decise che fosse ormai inutile nascondere l`esatta provenienza. Il contrammiraglio Nelson, dopo aver ordinato una fornitura di 500 pipe del miglior Marsala per il suo bastimento, ebbe a dire che è così buono che può figurare alla mensa di qualunque signore. Ebbe così inizio il periodo aureo della produzione vitivinicola marsalese, i cittadini si spostarono nelle campagne per impiantare i vigneti conferendo alla città di Marsala un aspetto topografico singolare di città-territorio, numerosi "bagli" furono adibiti a stabilimenti vinicoli e molti altri furono costruiti per la lavorazione e l`invecchiamento del vino Marsala. Venuto a conoscenza del successo commerciale conseguito da Woodhouse, giunse in Sicilia Benjamin Ingham, il quale ebbe il grande merito di aver contribuito a migliorare la qualità del vino locale divulgando le "Brevi istruzioni per la vendemmia ad oggetto di migliorare la qualità dei vini" tra i viticoltori non tanto perché questi sconoscessero le suddette norme ma perché le applicassero con rigore e costanza. Grazie anche a Joseph Whitaker, il vino Marsala venne esportato in Germania, Francia, Russia e nel 1822 i bastimenti carichi di frutta, barilla, sommacco, zolfo e vino raggiunsero gli Stati Uniti e, successivamente, il Brasile e l`Australia.

La setta dei Beati Paoli



Il tribunale
Quella dei Beati Paoli fu una setta segretissima, attiva a Palermo fino al secolo XVI, se addirittura non continuò ad agire anche dopo. Di essa sappiamo con certezza il nome, per il resto si possono fare soltanto delle congetture. Era costituita da persone di condizione medio-bassa, che si facevano giustizia contro gli abusi dei potenti quando lo Stato privilegiava le classi elevate anche nell'amministrazione della giustizia. I Beati Paoli costituivano un tribunale segreto e illegale, che si riuniva se a Palermo avveniva un fatto grave da parte di un potente ai danni di persone di condizione inferiore. Gli adepti di quella setta esaminavano il caso ed emettevano la sentenza. Se si trattava di una sentenza di morte, durante la stessa seduta decidevano chi di loro doveva ricevere l'incarico di eseguirla. Non sappiamo in quale epoca sia sorta questa setta. Il più attendibile degli scrittori che si siano occupati di essa, il Marchese di Villabianca, ritiene che le sue origini risalgano al XII secolo. Nel mistero è avvolto anche il suo nome. Per spiegarlo sono state avanzate le ipotesi più disparate; la più attendibile sembra quella che fa riferimento ad una congregazione religiosa devota di San Paolo. Da osservare che nel passato con il termine beato si faceva riferimento ad una persona particolarmente religiosa. I Beati Paoli si riunivano con molta probabilità nelle catacombe che si trovano sotto il quartiere del Capo. Vi entravano da un palazzo situato nelle vicinanze e avevano anche un'uscita di emergenza che, in caso di pericolo, consentiva loro mi mettersi in salvo fuggendo verso la campagna. Anche dei suoi affiliati sappiano pochissimo. Due nomi soltanto ci sono giunti; riguardano persone arrestate per delitti compiuti in qualità di Beati Paoli e condannate a morte. Il marchese di Villabianca racconta che quand'era ragazzino conobbe un cocchiere, di nome Vituzzu, del quale si diceva ch'era stato un appartenente alla setta dei Beati Paoli, forse l'ultimo o, comunque, uno degli ultimi. A questa misteriosa e terrificante setta ha dedicato un romanzo lo scrittore palermitano Luigi Natoli, che amava firmare le sue opere con lo pseudonimo di William Galt. Il romanzo s'intitola proprio “I Beati Paoli. Lo stesso autore parla di questa misteriosa setta anche nel romanzo “Coriolano della Floresta”.

mercoledì 23 gennaio 2013

Tindari e i suoi leggendari misteri

I laghetti
Il tetro Greco Romano
 Tindari,antica città greco-romana nota ai più per il Santuario della Madonna Nera, meta ogni anno di innumerevoli pellegrinaggi. Domina il golfo di Patti di cui è frazione, abbracciando un paesaggio che si estende dalle Isole Eolie fino ai Monti Peloritani, lasciando chi si ferma ad ammirarlo letteralmente senza fiato. A prescindere dall’aura di misticismo di cui il luogo è pervaso per via della presenza della miracolosa vergine, Tindari ha il sapore del mito e della storia che possiamo assaporare ad ogni passo. Tindari è andata distrutta da una calamità naturale (forse un terremoto, forse un maremoto), ma vanta un passato glorioso. A testimonianza di ciò i ritrovamenti archeologici:statue, maschere, ceramiche, lucerne e i pregiatissimi marmi dell’Antiquarium che danno un’idea di quanto la città dovesse essere stata importante in epoca romana. Il Teatro, riadattato dai Romani, sorge sul pendio della collina,domina tutto il paesaggio costiero; la Basilica ovvero l’antico Ginnasio posto ai bordi dell’Agorà e le Terme impreziosite da ricchi mosaici. Questa è la storia. E il mito?  Sono tante, infatti, le leggende che avvolgono quest’amena località. La più suggestiva riguarda sicuramente quella di una bambina disgraziatamente precipitata dal colle roccioso dove sorge il santuario e salvata per l’intercessione miracolosa della madonnina bruna. Fu un marinaio a ritrovarla, intenta a giocare su un arenile circondato da piccoli specchi d’acqua e la restituì alla madre, la quale inizialmente scettica nei confronti della natura miracolosa della statuetta lignea si dovette subitaneamente ricredere. Pare che il luogo dove la bambina fu trovata abbia dato origine a Marinello, località posta alla base del promontorio e da dove si possono ammirare gli splendidi laghetti, raggiungibili a piedi dalla spiaggia di Oliveri. Qui si trova una grotta, detta “di Donna Villa” che non mancherà di colpirci sia per la sua particolare conformazione sia naturalmente perché anche questo luogo è avvolto da un affascinante mistero, quello di una maga che attirava i marinai col suo canto suadente come la Circe omerica e poi li divorava senza pietà!

sabato 19 gennaio 2013

Il fantasma del "Teatro Massimo" di Palermo

Teatro Massimo
Dal sacro al profano: la leggenda della monaca e la costruzione del Teatro Massimo. C'era una volta un convento, anzi c'erano tre chiese e due monasteri e c'era anche una monaca che si aggirava con il suo libro di preghiere in mano tra i corridoi silenziosi: una monachina gelosa di quel silenzio, custode del suo tempio dove trascorreva in contemplazione e spiritualità i suoi giorni. Cosa avrà pensato quella monachina il 10 settembre 1864 quando l'allora Sindaco di Palermo, Marchese di Rudinì, bandì un concorso internazionale per un nuovo teatro lirico da edificarsi al centro della città? Con grande stupore e dispiacere apprese infatti che il luogo scelto avrebbe dovuto comportare la demolizione di chiese e monasteri alcuni dei quali risalenti al 1300 e tra questi anche il suo. La monachina certamente non avrebbe mai voluto essere allontanata dal luogo che aveva scelto per trascorrere la sua esistenza né di veder distruggere il suo mondo fatto di preghiera, silenzio e raccoglimento. Forse per questo giurò a se stessa di non lasciare mai quel posto rinnovando il suo giuramento di fede e di affetto per il sacro rifugio che l'aveva accolta con amore in tutti quegli anni e la sua presenza aleggiò nei secoli ed aleggia ancora. Chi ha vissuto e lavorato al Massimo sa bene, infatti, che non bisogna addentrarsi da soli nei meandri sotterranei del teatro. Molti giurano di aver visto all'improvviso il fantasma della monaca aggirarsi inquieto tra i corridoi oscuri, sui cornicioni, sui ponti di palcoscenico incutendo il terrore di coloro che incautamente hanno osato sfidare la sua ira. Anche la travagliata storia della costruzione del teatro sembra discendere da una specie di influsso malefico. L'allora inconsapevole Municipalità di Palermo non aveva badato a spese poiché il nuovo teatro avrebbe dovuto essere talmente sontuoso e grande da rivaleggiare con i maggiori teatri europei e, quindi, capace di dare risonanza e prestigio alla città. Il Teatro Massimo Vittorio Emanuele di Palermo è il più grande teatro d'Italia e uno dei più grandi teatri lirici d'Europa (il terzo per dimensioni dopo l'Opéra National de Paris e Staatsoper a Vienna) ed è famoso nel mondo per l'acustica perfetta con la sua sala a ferro di cavallo. Alla sua apertura, per monumentalità e dimensione (oltre 7.700 metri quadrati), suscitò le invidie di molti; come si può facilmente verificare leggendo i giornali italiani dell'epoca (es: "L'illustrazione italiana" del 6 giugno 1897). Perfino Re Umberto, con una gaffe clamorosa, dichiarò: "Palermo aveva forse bisogno di un teatro così grande?". Di gusto neoclassico sorge sulle aree di risulta della chiesa delle Stimmate e del monastero di San Giuliano che vennero demoliti alla fine dell’Ottocento per fare spazio alla grandiosa costruzione. I lavori furono iniziati nel 1875 dopo vicende travagliate che seguirono il concorso del 1864 vinto dall’architetto Giovan Battista Filippo Basile; il teatro venne completato da Ernesto Basile che, nel 1891 alla morte del padre, gli era subentrato nella costruzione.