lunedì 3 giugno 2013

Giuseppe D’Alesi, un eroe sconosciuto

Tanto spazio viene dato alle lotte sanguinose tra i piccoli comuni, alle lotte tra le repubbliche marinare, alle carneficine tra guelfi e ghibellini e poi si parla di sfuggita di quella che potremmo chiamare la madre delle rivoluzioni: la guerra del Vespro del 1282. Mai nessuno parla delle battaglie navali combattute e vinte alle isole Eolie, a Capo d'Orlando, nel golfo Napoli e nelle acque di Malta, dai siciliani contro i francesi, mentre la battaglia della Meloria tra Genova e Pisa è da tutti ricordata. Perché solo la battaglia di Campaldino tra guelfi e ghibellini si ricorda e non la battaglia di Messina contro l'Angiò, battaglia combattuta anche dalle donne, in prima linea sulle mura accanto ai guerrieri? La nostra storia, la storia del regno di Sicilia, come si può notare riempie gran parte del medioevo ed evidenzia, come in Sicilia sia sempre stato forte il sentimento dell'indipendenza, s una vera e propria guerra d’indipendenza dallo straniero.entimento che fa della Sicilia il primo vivaio della nazionalità e dell' “italianità” anche per la nascita della letteratura in volgare. Tutti conoscono Pier Capponi ma chi conosce Gian Luca Squarcialupo che comandò un’insurrezione contro le fazioni feudali che combattendosi tra loro facevano il gioco delle potenze straniere che soggiogavano l’isola? Giuseppe D’Alesi La nostra storia, la storia del regno di Sicilia, come si può notare riempie gran parte del medioevo ed evidenzia, come in Sicilia sia sempre stato forte il sentimento dell'indipendenza, sentimento che fa della Sicilia il primo vivaio della nazionalità e dell' “italianità” anche per la nascita della letteratura in volgare. Gli avvenimenti e le opere che hanno avuto per teatro la nostra terra sono soltanto in piccola parte da noi siciliani valorizzati; è come se noi non volessimo ricordare. Milano, Firenze, Genova, Venezia, Roma, Napoli ricordano la loro storia di comune, di stato, con opere, con memorie, con monumenti. Noi no … a noi piace dimenticare. Ad esempio un episodio importantissimo della storia nostra, è quasi completamente dimenticato. Tutti ricordano e celebrano la congiura di Bedmar a Venezia o la rivolta capitanata da Masaniello a Napoli ma Giuseppe D’Alesi, loro coevo chi lo conosce?

Nativo di Polizzi Generosa (di nome e di fatto) antica città madonita. D’Alesi si era trasferito a Palermo da ragazzo per apprendervi il mestiere di battiloro e si era presto distinto nell'artigianato come nel maneggio delle armi. Era ritenuto una vera autorità fra i popolani, che l'ammiravano per la sua prestanza fisica, per il suo carattere risoluto e leale, per la sua facilità di eloquio e per la sua intelligenza. Fuggito da Palermo nel maggio 1647 dopo i disordini provocati dai caprai di Nino La Pelosa (altro dimenticato!) riparò a Napoli ove conobbe Salvator Rosa e Masaniello. Tornato a Palermo, comunicò agli amici la sua intenzione di organizzare un’insurrezione contro il malgoverno spagnolo. La sera del 12 agosto 1647, si narra che in una stanza appartata di una bettola di via Sant'Antonio, si riunirono i capi della plebe e degli artigiani di Palermo. Erano: D'Alesi, Giacomo Conti, suo compare, Antonino Perello e Matteo Di Liberto, pescatori, Pietro Pertuso lettighiere, Giuseppe Errante, Francesco Daniele e Gian Battista dell'Aquila, conciatori. Si decise d'insorgere per la mattina del 15 La sera del 12 agosto 1647, si narra che in una stanza appartata di una bettola di via Sant'Antonio, si riunirono i capi della plebe e degli artigiani di Palermo. Erano: D'Alesi, Giacomo Conti, suo compare, Antonino Perello e Matteo Di Liberto, pescatori, Pietro Pertuso lettighiere, Giuseppe Errante, Francesco Daniele e Gian Battista dell'Aquila, conciatori.Ma la congiura fu sventata.Giuseppe D’Alesi, avvertito, a sua volta, dei primi arresti, non si perde d’animo, si arma e a capo di un gruppo di fedelissimi si avvia a Palazzo Reale reclamando l’immediato rilascio dei suoi amici già destinati all’impiccagione. Il viceré‚ li fa rimettere in libertà sperando di placare i rivoltosi, ma D'Alesi, nominato dal popolo Capitano Generale, assale le armerie governative e il palazzo Pretorio, arma i suoi uomini, si impadronisce di due cannoni dal baluardo del Tuono, e marcia all'assalto del Palazzo Reale. I soldati spagnoli si difesero coraggiosamente contro la "turba scellerata" come venne definita dai cronisti dell’epoca, evidentemente di parte spagnola. Tra le vittime di questo primo assalto c’è anche il pittore Pietro Novelli, monrealese, amico del D'Alesi, del quale, per fortuna, tante opere ancora rimangono nelle nostre chiese. Il primo scontro finisce con la vittoria dei palermitani. Il vicerè, con la famiglia e il seguito, fugge imbarcandosi su una galera. Al grido di “fuori lo spagnolo!” il Palazzo Reale viene conquistato e i soldati fatti prigionieri. D'Alesi a questo punto (e qui si vede la grande intelligenza del nostro) dava ordine di non distruggere nulla e confermò l'ordine anche per palazzi dei nobili siciliani alleati al viceré‚ e odiati dal popolo. Risparmiò anche la ricca dimora d'un suo personale nemico. I primi atti di D’Alesi, dopo la vittoria, furono rivolti ad assicurare l'ordine e la disciplina in tutta l’sola rimasta senza governo. Furono vietate, pena la galera o la vita, le ruberie, i saccheggi, le uccisioni. La Tavola o Banco Pubblico ( una delle prime banche della penisola) benché rimasta in balia dei rivoltosi, non fu toccata e fu riaperta al pubblico all’indomani della rivolta, il 16 agosto. I nobili e i ricchi borghesi che erano “coraggiosamente” scappati, vista la “civiltà” (da non confondere con quella degli idromassaggi e delle lavastoviglie) di D’Alesi, tornarono ben presto e don Diego Trasmigra, l’inquisitore, decise di affrontare subito la questione recandosi, di persona, a trovarlo. Gli fece molte e interessanti offerte. Ma D’Alesi non abboccò, rifiutò di lasciar tornare il Viceré per trattare, come il Trasmiga assicurava da pari a pari, e invece chiamò in aiuto quali consiglieri i più famosi giuristi di Palermo (Lo Giudice e i Miroldo) e nominò suoi segretari gli avvocati Giuseppe La Montagna e Pietro Milano. Al grande Inquisitore chiese, invece, la scarcerazione di don Francesco Baronio, storico e letterato, detenuto nelle carceri del Sant'Uffizio sotto l'accusa di eresia e di lesa maestà, per avere osato semplicemente rivendicare, a parole, il diritto della Sicilia all'indipendenza dagli spagnoli. Il 18 agosto 1647 nella basilica di San Giuseppe, sotto la presidenza di D’Alesi, si radunarono gl' Inquisitori, i nobili, i rappresentanti della borghesia e i consoli delle corporazioni artigiane, per discutere e approvare il nuovo statuto del regno di Sicilia, promulgato da Giuseppe D'Alesi. Questo statuto, composto da 49 capitoli era veramente rivoluzionario per l’epoca: venivano, si, rispettati i beni dei patrizi, che all’inizio, in verità, si volevano devolvere alla comunità ed alcuni privilegi di carattere morale ma il governo dell'isola, pur mantenendosi come avallante il vicerè spagnolo, passava in mano completamente ai siciliani, ai "nativi del regno". L’esercito, per un terzo spagnolo e per due terzi siciliano sia di mare che di terra, doveva avere ufficiali "regnicoli" e con preferenza palermitani. Gli artigiani avevano diritto ad una loro guardia armata, alla quale era affidata la sorveglianza perpetua e la guardia delle porte della città di Palermo (cosa hanno inventato i leghisti?) . Le corporazioni, inoltre, avevano la possibilità di intervenire nel governo della cosa pubblica tramite una giunta, di sei membri, metà dei quali artigiani e metà patrizi, rappresentanti la proprietà e l'industria terriera. Le corporazioni mantenevano amministrazioni e leggi proprie,che regolavano la produzione e i prezzi e mandavano inoltre propri delegati ai comuni e al fisco con diritto d'intervento in ogni pubblica questione coi loro Capitani e Consoli, insieme con quelli della borghesia professionale, coi "Dottori, Procuratori, Notai, Gentiluomini, Commissari e tutte le altre persone dei quartieri". Era un vero e proprio stato corporativo che distribuiva diritti e responsabilità a tutti cittadini, con un parlamento popolare che doveva governare in accordo col Senato già esistente. I nobili sottoscrissero, anche se non volentieri, presumo. Il clero si congratulò per la saggezza del vincitore, ipocritamente presumo. Trasmiera, l’inquisitore, che doveva firmare per il Viceré de Los Velez, sempre latitante, tergiversava, ma alla fine cedette. Ma Palermo non ha premiato questo suo figlio. La nostra bella città infatti ha come simbolo un “genio” un uomo coronato cui una serpe succhia latte o sangue dal seno, e reca la scritta "Alienos nutrit, suos devorat". (Nutre gli stranieri, mangia i suoi figli) E Palermo divorò questo suo figlio, così come Napoli aveva divorato Masaniello e Roma, Cola di Rienzo. I nobili, infatti, specie dopo aver saputo dell'intenzione di Giuseppe D' Alesi di nominare vicario il marchese di Geraci o il duca di Montalto con l'aiuto (dicono, ma non ho riscontri personali) del cardinale Mazzarino, organizzarono una controrivolta. Grazie a tanto denaro che passò da una tasca all’altra si allearono con il Trasmiera. Furono armati famigli e villani chiamati dai feudi e soprattutto furono sparsi i germi di velenose invidie e calunnie. Qualcuno avvertì D'Alesi. Ma la ormai il veleno della controrivolta era stato assorbito. Giuseppe si guardò attorno ma non vide che adulatori: i nobili lo trattavano come uno dei loro, i popolani gli baciavano le ginocchia. E lui si illuse! All’alba del 22 agosto, Cicco Panza, fedelissimo del D’Alesi, fu ucciso per strada con un colpo d’archibugio. Il fratello del D'Alesi, Francesco, fu inseguito e raggiunto dai soldati di Trasmiera: fu sgozzato e decapitato. A Gian Battista dell'Aquila mentre correva a cavallo, giù per una scalinata, gli uccisero il cavallo, nonostante questo riuscì a raggiungere i vicoli della Conceria e a raggiunger il suo Capitano. Il quartiere si difese disperatamente ma l’inquisitore Trasmiera ed i principi di Trabia, Scordia e Butera col Riggio e col Branciforti (che disponevano di oltre 6000 uomini) circondarono la Conceria, dove sono solo in ottocento resistevano. Giuseppe D’Alesi fugge per un passaggio segreto, che immette nelle fogne, dalle quali si sbocca fuori le mura. Ma uno di quei passaggi è troppo angusto e D’Alesi, di grossa stazza non riesce a passare, ritorna indietro e sbuca presso la scalinata di Santa Maria della Volta, in mezzo ai suoi nemici: fu ucciso. Sgozzato. Decapitato. Ferocemente. Anche Giuseppe Errante a Francesco Daniele furono scovati dai nascondigli e trucidati. Nessuno se lo ricorda D’Alesi … eppure fu più consapevole di Masaniello e di Cola di Rienzo o del successivo Pietro Micca, eroe risorgimentale ed antesig
nano degli odierni kamikaze che di niente arricchiscono le loro lotte se non di morte.

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