venerdì 23 agosto 2013

I FLORIO

(Cap.ll)  L'ascesa

Fra le iniziative destinate ad aver maggior fortuna vi sarà la costruzione di uno stabilimento per la produzione di vino "Marsala", in concorrenza con le famiglie inglesi che già operavano nel settore, come i Woodhouse e gli Ingham. L’inserimento di Vincenzo Florio nel mercato del vino, nel 1834, è un momento importante sia per la storia della famiglia sia per la storia del vino Marsala; intanto rispetto agli altri mercanti inglesi, la scelta di Vincenzo Florio è di rivolgersi soprattutto al mercato nazionale più che fare la concorrenza, che sarebbe stata persa già dal nascere, a Ingham che aveva il predominio del mercato americano o ai Woodhouse che avevano il predominio del mercato del Nord Europa. Le cose cominciano a cambiare sensibilmente nella seconda metà dell’Ottocento quando Vincenzo Florio e il figlio Ignazio investono sempre di più nell’azienda per modernizzarla. Nelle loro cantine si realizzerà il primo impianto di imbottigliamento meccanico ben prima che non alla Ingham o alla Woodehouse. L'attività intrapresa si rivelò un ottimo affare ed il prodotto si assicurò un vasto mercato. Altra iniziativa proficua si rivelò l’affare delle tonnare. Nell’ottobre del 1841 i Florio legano il loro nome alle isole Egadi, prendendo in gabella dai Pallavicino e Rusconi le antiche tonnare di Favignana e Formica per un periodo di diciannove anni.

 I Florio, come molti altri imprenditori, meridionali e settentrionali, ebbero una forte spinta dopo il
Locandina Targa
Florio
1860, non a caso la borghesia e l’imprenditoria dettero una mano, non solo metaforica, all’impresa garibaldina, confidando nella nascita e nello sviluppo di una moderna industria. Nel 1874 il figlio Ignazio senior acquisterà interamente le isole Egadi pagando la cifra di 2 milioni 750.000 lire alla famiglia Pallavicino. I Florio trasformarono l’industria conserviera del pesce in un’impresa mondiale. Con la costruzione dello stabilimento Florio a Favignana realizzarono il più moderno e importante complesso industriale di lavorazione e conservazione del tonno esistente nel Mediterraneo.
 Ignazio interviene inoltre, a partire dagli anni Settanta, in provincia di Caltanissetta con alcune attività di lavorazione dello zolfo e dà l’avvio a tante altre attività nel campo dell’industria chimica, della produzione di porcellane e ad un corollario di attività minori correlate. Ma l’attività dei Florio non si ferma qui. Banche, alberghi, editoria, una gara automobilistica: la Targa Florio che fa conoscere all’Europa intera i paesaggi selvaggi e dolci delle Madonie.

giovedì 22 agosto 2013

I FLORIO

Vincenzo Florio

(Cap.I)  L'ascesa   


Quando si parla dei Florio il pensiero corre subito alle feste, ai ricevimenti, al lusso, alle corse automobilistiche e soprattutto alla decadenza di questa Famiglia, ma l’epopea dei Florio non è solo la cronaca degli ultimi ruggenti ma disastrosi anni ma è soprattutto la storia della crescita costante delle fortune di una famiglia di imprenditori che ha inizio a fine settecento e che copre più di un secolo di successi prima di conoscere il tracollo finanziario e la fine della dinastia. Ma a noi meridionali piace ricordare soprattutto le sconfitte, amiamo molto il rimpianto e tendiamo a dimenticare le storie belle e costruttive che per quasi un secolo e mezzo hanno segnato il successo di una famiglia che ha dato lavoro e benessere a tante altre famiglie. Tutto ha inizio con Tommaso Florio a metà Seicento in Calabria, a Melicuccà, e poi a Bagnara, dove il figlio Domenico e il nipote Vincenzo, qui trasferitisi, esercitano il mestiere di fabbro. L'ascesa comincia con Paolo e Ignazio, figli di Vincenzo. A spingere i Florio sul mare fu probabilmente Paolo Barbaro, genero di Vincenzo Florio, che strappò Paolo al destino di “scalco” accogliendolo come socio nella sua attività di “ambulante” del mare che girava per i porti del Tirreno commerciando. Tra il 1800 e 1801 Paolo però, chiamato a sé il fratello Ignazio, si stabilisce definitivamente a Palermo: i due aprono un piccolo negozio in via dei Materazzai e si dedicano per alcuni decenni al redditizio commercio delle spezie e merci rare, all’affitto e successivo acquisto di qualche tonnara sul litorale palermitano ed al prestito al “cambio marittimo”.“cambio marittimo”.
Ignazio Florio senior

 Il salto di qualità avvenne con Vincenzo, figlio di Paolo. Ormai la famiglia si era notevolmente arricchita e Vincenzo ebbe la possibilità di acquistare alcune quote dello “Brick-Schooner” Santa Rosalia e, approfittando dei trattati di pace e di commercio tra il governo borbonico ed i governi algerini, tunisini e di Tripoli, estremamente vantaggiosi dal punto di vista doganale, cominciarono ad incrementare gli introiti e ad acquistare altre imbarcazioni, che già negli anni trenta dell’Ottocento formavano una discreta flotta che toccava i porti di New York, Boston, Londra, Liverpool, Marsiglia e Genova da dove per conto della Casa Florio importavano a Palermo manifatture, zucchero, cera, pellame, droghe, rum, catrame, ecc. ecc. Tutto ciò, insomma, che poteva trovare un mercato in Sicilia. La destinazione finale erano tuttavia i mercati orientali da cui importavano le "droghe", cioè le spezie, da ridistribuire nel mercato italiano. In pochi anni la ditta si trasforma in una holding: dal commercio all'attività finanziaria, dalla pesca del tonno alla produzione vinicola e zolfifera. Il talento economico di Vincenzo è notevole e numerosissime sono le attività di cui è promotore o compartecipe. E’ un tycoon e si caratterizza per avere, oltre che un’innata indole imprenditoriale, i connotati dell’uomo sensibile alla cultura, all’estetica e una condotta imprenditoriale che, assieme al ritorno economico, giovi ad un miglioramento della comunità. Moderno ed al passo con i tempi, intravede grandi potenzialità nel settore tessile investendo in cotonifici. Ed ancora, investe ed ottiene successo co-fondando la compagnia di navigazione "Società dei battelli a vapore siciliani", insieme a numerosi altri esponenti dell'aristocrazia siciliana.


lunedì 3 giugno 2013

Giuseppe D’Alesi, un eroe sconosciuto

Tanto spazio viene dato alle lotte sanguinose tra i piccoli comuni, alle lotte tra le repubbliche marinare, alle carneficine tra guelfi e ghibellini e poi si parla di sfuggita di quella che potremmo chiamare la madre delle rivoluzioni: la guerra del Vespro del 1282. Mai nessuno parla delle battaglie navali combattute e vinte alle isole Eolie, a Capo d'Orlando, nel golfo Napoli e nelle acque di Malta, dai siciliani contro i francesi, mentre la battaglia della Meloria tra Genova e Pisa è da tutti ricordata. Perché solo la battaglia di Campaldino tra guelfi e ghibellini si ricorda e non la battaglia di Messina contro l'Angiò, battaglia combattuta anche dalle donne, in prima linea sulle mura accanto ai guerrieri? La nostra storia, la storia del regno di Sicilia, come si può notare riempie gran parte del medioevo ed evidenzia, come in Sicilia sia sempre stato forte il sentimento dell'indipendenza, s una vera e propria guerra d’indipendenza dallo straniero.entimento che fa della Sicilia il primo vivaio della nazionalità e dell' “italianità” anche per la nascita della letteratura in volgare. Tutti conoscono Pier Capponi ma chi conosce Gian Luca Squarcialupo che comandò un’insurrezione contro le fazioni feudali che combattendosi tra loro facevano il gioco delle potenze straniere che soggiogavano l’isola? Giuseppe D’Alesi La nostra storia, la storia del regno di Sicilia, come si può notare riempie gran parte del medioevo ed evidenzia, come in Sicilia sia sempre stato forte il sentimento dell'indipendenza, sentimento che fa della Sicilia il primo vivaio della nazionalità e dell' “italianità” anche per la nascita della letteratura in volgare. Gli avvenimenti e le opere che hanno avuto per teatro la nostra terra sono soltanto in piccola parte da noi siciliani valorizzati; è come se noi non volessimo ricordare. Milano, Firenze, Genova, Venezia, Roma, Napoli ricordano la loro storia di comune, di stato, con opere, con memorie, con monumenti. Noi no … a noi piace dimenticare. Ad esempio un episodio importantissimo della storia nostra, è quasi completamente dimenticato. Tutti ricordano e celebrano la congiura di Bedmar a Venezia o la rivolta capitanata da Masaniello a Napoli ma Giuseppe D’Alesi, loro coevo chi lo conosce?

Nativo di Polizzi Generosa (di nome e di fatto) antica città madonita. D’Alesi si era trasferito a Palermo da ragazzo per apprendervi il mestiere di battiloro e si era presto distinto nell'artigianato come nel maneggio delle armi. Era ritenuto una vera autorità fra i popolani, che l'ammiravano per la sua prestanza fisica, per il suo carattere risoluto e leale, per la sua facilità di eloquio e per la sua intelligenza. Fuggito da Palermo nel maggio 1647 dopo i disordini provocati dai caprai di Nino La Pelosa (altro dimenticato!) riparò a Napoli ove conobbe Salvator Rosa e Masaniello. Tornato a Palermo, comunicò agli amici la sua intenzione di organizzare un’insurrezione contro il malgoverno spagnolo. La sera del 12 agosto 1647, si narra che in una stanza appartata di una bettola di via Sant'Antonio, si riunirono i capi della plebe e degli artigiani di Palermo. Erano: D'Alesi, Giacomo Conti, suo compare, Antonino Perello e Matteo Di Liberto, pescatori, Pietro Pertuso lettighiere, Giuseppe Errante, Francesco Daniele e Gian Battista dell'Aquila, conciatori. Si decise d'insorgere per la mattina del 15 La sera del 12 agosto 1647, si narra che in una stanza appartata di una bettola di via Sant'Antonio, si riunirono i capi della plebe e degli artigiani di Palermo. Erano: D'Alesi, Giacomo Conti, suo compare, Antonino Perello e Matteo Di Liberto, pescatori, Pietro Pertuso lettighiere, Giuseppe Errante, Francesco Daniele e Gian Battista dell'Aquila, conciatori.Ma la congiura fu sventata.Giuseppe D’Alesi, avvertito, a sua volta, dei primi arresti, non si perde d’animo, si arma e a capo di un gruppo di fedelissimi si avvia a Palazzo Reale reclamando l’immediato rilascio dei suoi amici già destinati all’impiccagione. Il viceré‚ li fa rimettere in libertà sperando di placare i rivoltosi, ma D'Alesi, nominato dal popolo Capitano Generale, assale le armerie governative e il palazzo Pretorio, arma i suoi uomini, si impadronisce di due cannoni dal baluardo del Tuono, e marcia all'assalto del Palazzo Reale. I soldati spagnoli si difesero coraggiosamente contro la "turba scellerata" come venne definita dai cronisti dell’epoca, evidentemente di parte spagnola. Tra le vittime di questo primo assalto c’è anche il pittore Pietro Novelli, monrealese, amico del D'Alesi, del quale, per fortuna, tante opere ancora rimangono nelle nostre chiese. Il primo scontro finisce con la vittoria dei palermitani. Il vicerè, con la famiglia e il seguito, fugge imbarcandosi su una galera. Al grido di “fuori lo spagnolo!” il Palazzo Reale viene conquistato e i soldati fatti prigionieri. D'Alesi a questo punto (e qui si vede la grande intelligenza del nostro) dava ordine di non distruggere nulla e confermò l'ordine anche per palazzi dei nobili siciliani alleati al viceré‚ e odiati dal popolo. Risparmiò anche la ricca dimora d'un suo personale nemico. I primi atti di D’Alesi, dopo la vittoria, furono rivolti ad assicurare l'ordine e la disciplina in tutta l’sola rimasta senza governo. Furono vietate, pena la galera o la vita, le ruberie, i saccheggi, le uccisioni. La Tavola o Banco Pubblico ( una delle prime banche della penisola) benché rimasta in balia dei rivoltosi, non fu toccata e fu riaperta al pubblico all’indomani della rivolta, il 16 agosto. I nobili e i ricchi borghesi che erano “coraggiosamente” scappati, vista la “civiltà” (da non confondere con quella degli idromassaggi e delle lavastoviglie) di D’Alesi, tornarono ben presto e don Diego Trasmigra, l’inquisitore, decise di affrontare subito la questione recandosi, di persona, a trovarlo. Gli fece molte e interessanti offerte. Ma D’Alesi non abboccò, rifiutò di lasciar tornare il Viceré per trattare, come il Trasmiga assicurava da pari a pari, e invece chiamò in aiuto quali consiglieri i più famosi giuristi di Palermo (Lo Giudice e i Miroldo) e nominò suoi segretari gli avvocati Giuseppe La Montagna e Pietro Milano. Al grande Inquisitore chiese, invece, la scarcerazione di don Francesco Baronio, storico e letterato, detenuto nelle carceri del Sant'Uffizio sotto l'accusa di eresia e di lesa maestà, per avere osato semplicemente rivendicare, a parole, il diritto della Sicilia all'indipendenza dagli spagnoli. Il 18 agosto 1647 nella basilica di San Giuseppe, sotto la presidenza di D’Alesi, si radunarono gl' Inquisitori, i nobili, i rappresentanti della borghesia e i consoli delle corporazioni artigiane, per discutere e approvare il nuovo statuto del regno di Sicilia, promulgato da Giuseppe D'Alesi. Questo statuto, composto da 49 capitoli era veramente rivoluzionario per l’epoca: venivano, si, rispettati i beni dei patrizi, che all’inizio, in verità, si volevano devolvere alla comunità ed alcuni privilegi di carattere morale ma il governo dell'isola, pur mantenendosi come avallante il vicerè spagnolo, passava in mano completamente ai siciliani, ai "nativi del regno". L’esercito, per un terzo spagnolo e per due terzi siciliano sia di mare che di terra, doveva avere ufficiali "regnicoli" e con preferenza palermitani. Gli artigiani avevano diritto ad una loro guardia armata, alla quale era affidata la sorveglianza perpetua e la guardia delle porte della città di Palermo (cosa hanno inventato i leghisti?) . Le corporazioni, inoltre, avevano la possibilità di intervenire nel governo della cosa pubblica tramite una giunta, di sei membri, metà dei quali artigiani e metà patrizi, rappresentanti la proprietà e l'industria terriera. Le corporazioni mantenevano amministrazioni e leggi proprie,che regolavano la produzione e i prezzi e mandavano inoltre propri delegati ai comuni e al fisco con diritto d'intervento in ogni pubblica questione coi loro Capitani e Consoli, insieme con quelli della borghesia professionale, coi "Dottori, Procuratori, Notai, Gentiluomini, Commissari e tutte le altre persone dei quartieri". Era un vero e proprio stato corporativo che distribuiva diritti e responsabilità a tutti cittadini, con un parlamento popolare che doveva governare in accordo col Senato già esistente. I nobili sottoscrissero, anche se non volentieri, presumo. Il clero si congratulò per la saggezza del vincitore, ipocritamente presumo. Trasmiera, l’inquisitore, che doveva firmare per il Viceré de Los Velez, sempre latitante, tergiversava, ma alla fine cedette. Ma Palermo non ha premiato questo suo figlio. La nostra bella città infatti ha come simbolo un “genio” un uomo coronato cui una serpe succhia latte o sangue dal seno, e reca la scritta "Alienos nutrit, suos devorat". (Nutre gli stranieri, mangia i suoi figli) E Palermo divorò questo suo figlio, così come Napoli aveva divorato Masaniello e Roma, Cola di Rienzo. I nobili, infatti, specie dopo aver saputo dell'intenzione di Giuseppe D' Alesi di nominare vicario il marchese di Geraci o il duca di Montalto con l'aiuto (dicono, ma non ho riscontri personali) del cardinale Mazzarino, organizzarono una controrivolta. Grazie a tanto denaro che passò da una tasca all’altra si allearono con il Trasmiera. Furono armati famigli e villani chiamati dai feudi e soprattutto furono sparsi i germi di velenose invidie e calunnie. Qualcuno avvertì D'Alesi. Ma la ormai il veleno della controrivolta era stato assorbito. Giuseppe si guardò attorno ma non vide che adulatori: i nobili lo trattavano come uno dei loro, i popolani gli baciavano le ginocchia. E lui si illuse! All’alba del 22 agosto, Cicco Panza, fedelissimo del D’Alesi, fu ucciso per strada con un colpo d’archibugio. Il fratello del D'Alesi, Francesco, fu inseguito e raggiunto dai soldati di Trasmiera: fu sgozzato e decapitato. A Gian Battista dell'Aquila mentre correva a cavallo, giù per una scalinata, gli uccisero il cavallo, nonostante questo riuscì a raggiungere i vicoli della Conceria e a raggiunger il suo Capitano. Il quartiere si difese disperatamente ma l’inquisitore Trasmiera ed i principi di Trabia, Scordia e Butera col Riggio e col Branciforti (che disponevano di oltre 6000 uomini) circondarono la Conceria, dove sono solo in ottocento resistevano. Giuseppe D’Alesi fugge per un passaggio segreto, che immette nelle fogne, dalle quali si sbocca fuori le mura. Ma uno di quei passaggi è troppo angusto e D’Alesi, di grossa stazza non riesce a passare, ritorna indietro e sbuca presso la scalinata di Santa Maria della Volta, in mezzo ai suoi nemici: fu ucciso. Sgozzato. Decapitato. Ferocemente. Anche Giuseppe Errante a Francesco Daniele furono scovati dai nascondigli e trucidati. Nessuno se lo ricorda D’Alesi … eppure fu più consapevole di Masaniello e di Cola di Rienzo o del successivo Pietro Micca, eroe risorgimentale ed antesig
nano degli odierni kamikaze che di niente arricchiscono le loro lotte se non di morte.

Il primo nucleo statale, la prima potenza civile italica fu in Sicilia, con capitale Siracusa.

La storia d'Italia è la storia di alcune città e regioni italiane ricalcata dalle cronache del Villani, del Compagni, del Malespini, del Guicciardini e via via fino al Muratore,al Sismondi e ai cronisti del Risorgimento. Da Napoli in su! Nessuno pare abbia mai consultato il Fazello, l'Auria, il Serio, il Baronio, il Pirri, il Mongitore, il Di Blasi, l'Amari e il La Lumia. libri, soprattutto quelli scolastici, della Storia d'Italia, sono stati da sempre una raccolta mal coordinata delle cronache di alcune regioni, o peggio, di alcune città o famiglie che avevano avuto parte preponderante in certi episodi, al seguito di un papa o di un sovrano straniero. Manca quasi sempre la storia del popolo. E poiché la coordinazione di queste cronache e la loro riduzione in trattati di storia è stata fatta sempre da scrittori del nord o del centro Italia che conoscevano meglio gli avvenimenti che riguardavano le loro contrade, ne è venuta fuori una storia d’Italia nella quale il mezzogiorno d'Italia e la Sicilia specialmente figurano come teatro di episodi secondari; fanno quasi da contorno alla storia del papato, a quella di Milano, di Venezia, di Genova, di Firenze e di Pisa. In questa storia di regioni e di città che comincia, nelle scuole, con la storia orientale e greca, troviamo Ninive, Babilonia e Cartagine; ma si accenna di sfuggita a Siracusa, Agrigento, Gela, Erice, Lentini, Catana, Zancle, e solo perché alcune di queste città entrarono in guerra con Atene, coi fenici o con i romani. La storia d'Italia piuttosto che dagli etruschi di cui si sa poco o nulla, dovrebbe cominciare dalla Sicilia che, come valore politico nel mondo antico e fino alle guerre puniche contò più di Roma. Il primo nucleo statale, la prima potenza civile italica fu in Sicilia, con capitale Siracusa. Mai si scrive che in quello stesso periodo, c'era in Italia, uno stato siciliano. Si parla appena della conquista della Sicilia da parte degli avventurieri normanni. Che questi erano guerrieri mercenari, valorosi ma incolti e barbari appena latinizzati, che trovarono presso il popolo siciliano una maggiore civiltà, dalla quale rimasero allettati e, a loro volta, conquistati. Nessuno spiega che allora si formò in Sicilia il primo regno italiano, il più importante stato italiano autonomo ben più importante di qualsiasi altro staterello della penisola. Nessuno spiega che attorno alla corte di Palermo gravitò, dal 1130 circa al 1250 la cultura italiana e la politica italiana di cui fu autorevole portavoce Federico II, personaggio, nel bene e nel male, certamente di maggior spessore di Carlomagno. Tutti i libri di testo ad esempio parlano del 1848 come dell'anno delle rivoluzioni, citando i moti di Francia e d'Ungheria, esaltando le 5 giornate di Milano, i moti di Venezia, di Roma, e dei piemontesi e dei toscani. Ma perché nessuno ricorda i siciliani? Perché non si dice che fu Palermo a dare il primo segnale in Europa ? Il dodici gennaio palermitano, esempio unico nella storia, in cui un popolo affigge alle cantonate un proclama di sfida al governo e lo avverte del giorno e del modo in cui la rivoluzione scoppierà e si compirà ? Un corretto manuale di storia dovrebbe invece evidenziare 1'influenza che, specialmente in taluni periodi, esercitò la Sicilia rispetto ad altre regioni. Basta solo pensare che nel decimo secolo dopo Cristo, quando l’Europa era devastata dalle orde barbariche e Bisanzio era ormai una civiltà in dissoluzione, Berlino era solo un borgo selvaggio della marca di Brandenburgo, Vienna la piccola capitale di un ducato, Londra e Parigi città di poco superiori ai centomila abitanti. In Italia soltanto Milano, Pisa e Venezia si salvavano e Roma era solo un borgo la cui potenza era soltanto spirituale. In Sicilia invece, si era affermata la potenza araba, non una dominazione barbara, come qualcuno dei nostri politici oggi potrebbe pensare ma antesignana di quella nuova civiltà che doveva più tardi fiorire e spandersi per l'Europa tutta. Qui, infatti, in Sicilia dalla mescolanza dei retaggi della civiltà greca e romana, con la giovane e agguerrita civiltà araba, si origina e si sviluppa una nuova civiltà. Gli arabi di Sicilia fanno rinascere e coltivano la poesia, reinventano l’architettura, diffondono la matematica, la medicina, l'alchimia (l’odierna chimica). Gli arabi di Sicilia riattivano i commerci prima ancora di Amalfi, di Pisa e di Genova che contro di loro lottarono per accaparrarsi la supremazia commerciale che nel Tirreno per circa due secoli fu in mano della Sicilia. I mercenari normanni, primi crociati per la Chiesa, non erano che rozzi soldati di ventura, ma ebbero un merito e contro la stessa Chiesa: sostituitisi agli emiri mussulmani nell'antico fiorentissimo stato, essi s'incivilirono alla scuola dei vinti e favorirono lo sviluppo già dato da questi alle lettere, alle arti e alle discipline scientifiche. Sotto di loro la Sicilia divenne l'emporio europeo della civiltà, la culla del progresso, la sede di ogni bellezza. Con Federico II, Palermo, diventa sede degl'imperatori; è la prima città d'Italia e di Germania e di tutto l'occidente, e la storia di quel periodo, che si prolunga fino alla battaglia di Tagliacozzo, ruota attorno alla Sicilia. Ma nei libri di storia non se ne parla o quasi!

lunedì 27 maggio 2013

Tradizioni e cultura siciliana


Cosa si pensa quando si parla della Sicilia? Calore, allegria e sole. Queste sono le principali caratteristiche di quest’isola meravigliosa. Il calore degli abitanti molto ospitali e che suscitano il sorriso nei turisti perché con la loro spontaneità e la pronunciata gestualità, sanno farsi voler bene da tutti. L’allegria durante le feste locali nei vari comuni della Sicilia, che sono un’infinità, sono una delle maggiori attrattive per i viaggiatori e coloro che amano divertirsi. E il sole, il sole caldo anche d’inverno, le spiagge molto visitate d’estate, e il piacevole clima mite che permette di fare escursioni e gite anche d’inverno.

 I dialetti

I dialetti parlati in Sicilia sono tantissimi e pieni di sfaccettature nei quartieri delle singole città. Tutti parlano il dialetto senza vergogna in quanto è una lingua a tutti gli effetti, con una storia e una grammatica propria. Sono diverse le matrici del dialetto siculo: indoeuropea e mediterranea (calancuni onda impetuosa di fiume); greca con la dominazione bizantina (tuppiare bussare alla porta); araba con la venuta dei Saraceni (mischinu poverino); franco-normanna con Ruggero I la sicilia tornò ad essere cristiana (quasetti calze); gallica, influenza lombarda (orbu cieco); iberica con la venuta degli spagnoli (sgarrari sbagliare).

 La cucina
Cassata siciliana - immagine ricettedisicilia.net
Cassata siciliana

Come si può notare dalla situazione linguistica siamo un mix di tradizioni e culture ma non solo in
questo campo, ma anche in cucina. Le specialità siciliane che piacciono a tutti a grandi e piccini. Il simbolo della sicilia è la cassata, un pan di Spagna farcito di ricotta zuccherata, circondata da pasta reale e decorata con frutta candita. I cannoli, una cialda fritta ripiena di ricotta zuccherata. Un alternativa al gelato è la granita, molto diffusa in sicilia, tritato di ghiaccio con sciroppi alla frutta. Mentre per quando riguarda il salato, lo street food siciliano per eccellenza: panelle (frittelle di farina di ceci), crocchè (crocchette fritte di patate lessate), sfincione (una specie di pizza a doppio strato pieno di cipolla), panino con la milza (milza e polmone di vitello), e stigghiole (budella di agnello arrostite).

 La letteratura

È piena di scrittori illustri la Sicilia. Tutto comincia con la Scuola Siciliana alla corte di Federico II, dove si sviluppo il primo volgare. Tra i più illustri ci sono: Giacomo da Lentini, inventore del sonetto; Luigi Pirandello con il suo premio Nobel per la letteratura; Luigi Capuana e Giovanni Verga entrambi veristi; Salvatore Quasimodo altro premio Nobel; Giuseppe Tomasi di Lampedusa, conosciutissimo per il suo romanzo storico “Il Gattopardo”, e molti altri autori.
Giacomo da Lentini

giovedì 16 maggio 2013

Don Luigi Sturzo

Cerimonia pubblica in Campidoglio in occasione degli ottanta anni di Don Luigi Sturzo


Ricoprì vari ruoli come quello del politico, sociologo, sacerdote, insegnante in seminario, sindaco della sua Caltagirone (Ct). A Caltagirone fonda un comitato diocesano delle associazioni di operai, di agricoltori e di studenti, una cassa rurale e una società di mutuo soccorso per artigiani, dando ad essi voce con il giornale da lui fondato e diretto, “La Voce di Costantino”. Laureato in filosofia e teologia, nel 1919 fondò il Partito Popolare del quale fu segretario fino al 1923. Contrario al fascismo, fu esule a Londra e negli Stati Uniti. Ritorna in Italia nel 1946 e riprende la sua battaglia per la libertà attraverso i giornali. Nel 1952 ottiene la nomina di senatore a vita. La sua opera si basa su una seria conoscenza economica giuridica e rara conoscenza dell’amministrazione burocratica dello stato liberale.

mercoledì 8 maggio 2013

Un'isola al centro del mondo


Un'Isola al centro del mondo ''Il sesto giorno, Iddio, compì la sua opera e lieto d'aver creato tanto bello, prese la terra tra le mani e la baciò. Là, dove lui posò le labbra, è la SICILIA centro del mondo.''





 La posizione centrale della Sicilia nel Mediterraneo ha assunto valori diversi nelle varie epoche storiche. La Sicilia era parsa quasi l'ombelico del mondo nell'età classica.Questo ruolo l’ha avuto per secoli. L’ha avuto sin dalla preistoria perché è geograficamente al centro dei traffici, delle migrazioni e dei conflitti. L’ha avuto nell’antichità perchè preda ambita di conquistatori più ambiziosi e più forti che presto sono però diventati “siciliani” e dalla Sicilia e con la Sicilia hanno perseguito l’ulteriore loro sviluppo. Lo ha perso con Roma, di cui divenne provincia. Lo ha riconquistato in pieno con gli Arabi, i Normanni e gli Svevi: La Sicilia emirato, regno, impero. Quattrocentodiciannove anni di grandezza e di esempio per i popoli, centro e protagonista del Mediterraneo e dell’Europa, terra di sviluppo e immigrazione dal sud e dal nord, dall’est e dall’ovest. Lo ha perso, per ora, con la crisi profonda del Mediterraneo, lo spostamento dei traffici sull’Atlantico, la logica dei blocchi e della guerra fredda, la globalizzazione. La Sicilia, ormai da secoli, dal 1250, anno della morte di Federico Imperatore, viene trascinata dove gli altri la portano: col sistema imperiale spagnolo, con altri grandi e piccoli dominatori, con l’Italia, con l’Occidente, con l’Europa, con la superpotenza americana. Chi ha relegato la Sicilia al ruolo di marginalità ed emarginazione vuole e fa in modo che i Siciliani stessi dimentichino la propria storia e perdano la propria lingua e cultura. E pensare che la Sicilia è stata un originale laboratorio di cooperazione fra popoli e culture. Che tutte le civiltà appena citate sono state in Sicilia, che l'hanno profondamente segnata, che il carattere attuale dei Siciliani è frutto di questa straordinaria cooperazione. La Sicilia è stata ed è rimasta, insomma, una realtà unica ed ha acquisito una cultura che le permette, soprattutto in questo periodo, di lanciare un messaggio a tutti i popoli del Mediterraneo (Tunisia, Egitto, Libia, ecc.) che sono alla ricerca della democrazia e libertà.